mercoledì 5 giugno 2013


L'interpretazione dei sogni di Sigmund Freud 


L'interpretazione dei sogni, pubblicato in tedesco nel 1899 con il titolo Die Traumdeutung (ma datato 1900 per enfatizzarne il carattere di lavoro epocale), è una delle opere di Sigmund Freud che sta alla base degli ulteriori sviluppi del pensiero del fondatore della psicoanalisi.
Essa segna il passaggio del metodo psicoanalitico, per accedere ai contenuti inconsci della psiche, dalla semplice tecnica dellalibera associazione di idee al nuovo metodo che privilegia direttamente l'attività onirica, che di per sé nullifica o almeno limita considerevolmente l'attività censoria della ragione.
All'uscita di quest'opera il sogno era relegato ai margini degli interessi psicologici e gli veniva negata addirittura una qualsiasi validità psichica; ciò aiuta a comprendere quanto il volume freudiano fosse rivoluzionario, accolto parimenti con interesse e con sprezzanti critiche dal panorama culturale e scientifico dell'epoca.
Si definisce contenuto manifesto quella parte del sogno che viene raccontata al risveglio da parte del sognatore; in sostanza, la storia e gli elementi del sogno per come vengono espressamente ricordati dal sognatore. Gli elementi che compongono tale "storia" sono simbolici, e devono essere interpretati analiticamente per poter arrivare al significato "profondo" del sogno stesso. Freud ha individuato, elencato ed analizzato tutta una serie di regole secondo cui i sogni si formano, oscurando i contenuti inconsci e permettendo loro, così camuffati, di arrivare alla coscienza. Utilizzando quelle stesse regole è possibile decriptare il sogno partendo dal contenuto manifesto (cioè dal racconto del sognatore).

Freud dunque preparò un volume poderoso, quasi a voler anticipatamente rispondere alle critiche che inevitabilmente sarebbero venute. In uno degli ultimi capitoli, il settimo, il medico viennese ipotizzò inoltre un modello psichico che riuscisse a spiegare il meccanismo della "formazione onirica", come via regressiva del pensiero verso la percezione.
Si definiscono contenuto latente di un sogno quei contenuti mascherati dagli elementi simbolici che vengono indicati col termine "contenuto manifesto". Attraverso l'interpretazione analitica dei simboli contenuti nel sogno si riesce ad arrivare alla ricostruzione dei contenuti inconsci che, altrimenti, non potrebbero apparire alla coscienza.Sigmund Freud fu il primo a formulare una teoria dei sogni che poteva aiutare nell'interpretazione di questi ultimi. Per Freud vi erano una serie di leggi che regolavano la formazione del contenuto manifesto di un sogno. Capendo come si formavano i sogni era possibile, usando le stesse leggi, decriptarne il contenuto latente. Tali leggi sono:
Condensazione È il collegamento tra elementi che nella veglia sarebbero scollegati. Quindi ogni elemento manifesto del sogno rappresenta o può rappresentare una quantità di elementi latenti.
Spostamento È l'attribuzione di un carattere di un elemento ad un altro elemento.
Drammatizzazione I contenuti latenti del sogno sono rappresentati nel sogno manifesto tramite azioni o situazioni.
Simbolizzazione È un elemento accettabile alla coscienza che nasconde un contenuto inaccettabile. Freud stabilì un certo numero di simboli che considerava universali, ma ha sempre ritenuto che per dare significato al simbolo usato da una persona fosse indispensabile conoscerla bene.
Tutto l'incipit della "Traumdeutung", titolo con il quale è molto spesso citata l'opera, è volto a documentare come il desiderio di riuscire a cogliere il significato misterioso dei sogninon è una novità di cui la psicoanalisi ha il merito, ma che questa esigenza è connaturata alla specie allorché raggiunge un certo grado di civilizzazione. Infatti l'attitudine a mettere in chiaro il senso oscuro dei sogni affonda nella più lontana antichità (a partire dall'attività degli interpreti di sogni dei Templi di Esculapio nella Grecia arcaica, e degli oniromanti in tutto il vicino Oriente antico, come riportato anche dalla Bibbia - cfr. l'episodio di Giuseppe e del "Sogno del Faraone"; e a partire dall'opera del II secolo d.C. di Artemidoro di Daldi"Interpretazione dei Sogni").
Rappresentazione per l'opposto Il contenuto manifesto è l'opposto del contenuto latente. Ossia ciò che ricordiamo di un sogno è l'opposto di quello che in realtà è il nostro desiderio, consistente appunto nel contenuto latente. 
Freud rileva come molte delle teorie fossero incomplete, lacunose, non suffragate da prove e facilmente controvertibili, e che nessuna di esse riuscisse a spiegare il meccanismo intimo che nel sonno porta alla formazione del sogno, arrivando anche a sostenere che le più antiche teorie, tra cui quelle che hanno eco nella cultura popolare o nei poeti, fossero più simili al vero di quelle presentate da filosofi e scienziati.
Il motore dei sogni secondo Freud sono i desideri inconsci, e questo è il pilastro su cui si basa la sua teoria. Tali desideri, appunto inconsci e non accessibili all'io, operano ancora all'interno della psiche umana; durante il sonno rafforzano i loro effetti per via della minore attività della coscienza, e hanno dunque l'occasione di emergere sotto forma di immagine onirica.
Freud distingue il contenuto manifesto, ovvero la situazione o la scena che appaiono direttamente in sogno, e il contenuto latente, ovvero ciò a cui il sogno nascostamente allude. Freud spiega la differenza col fatto che il sogno rappresenta la soddisfazione di un desiderio spesso inaccettabile all'Io del soggetto; di conseguenza, il contenuto latente viene trasformato in modo da non risultare riconoscibile, ed eludere in questo modo la censura applicata dal Super-Io del soggetto sognante.
Freud inoltre ipotizza come il sogno tragga origine spesso da residui psichici diurni, cioè da materiale ed impressioni indifferenti o non completamente elaborati, ma che tali residui non sarebbero in grado di portare alla formazione del sogno se non si rafforzassero con un desiderio inconscio, per lo più infantile, in grado di amplificarlo e portarlo all'attenzione della coscienza.
Secondo lui il sogno è una "realizzazione velata di desideri inibiti", cioè espressione di desideri che la coscienza disapprova e che non vuole siano rivelati. La coscienza esercita infatti una censura psichica impedendo a quei contenuti di emergere.
Uno degli elementi storicamente fondanti e correlati della psicanalisi fu proprio lo sviluppo della tecnica della libera associazione, attraverso la quale Freud cercava di raccogliere informazioni sul significato latente dei sogni raccontati dai propri pazienti.
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE



Il nucleo originario della Scuole di Francoforte si forma dal 1922, attorno all'Istituto per la ricerca sociale, fondato da F. Weil e diretto da K. Grünberg, uno storico austriaco fondatore dell'Archivio per la storia del socialismo e del movimento operaio.
Attorno all'Istituto gravitano inizialmente il sociologo K.A. Wittfogel (studioso delle società asiatiche precapitalistiche e della società sovietica), gli economisti H. Grossmann e F. Pollock, lo storico F. Borkenau, i filosofi M. Horkheimer (che assumerà la direzione dell'Istituto nel 1930) e, in seguito, T.W. Adorno. Più tardi si uniranno al gruppo il sociologo della letteratura L. Löwenthal, il politologo F. Neumann, lo psico-sociologo E. Fromm, il filosofo H. Marcuse, il critico letterario e filosofo W. Benjamin.
Nel 1932 Horkheimer fonda la "Rivista per la ricerca sociale", di fama internazionale. Con l'avvento del nazismo la scuola emigra prima a Ginevra, poi a Parigi, infine a New York. Al termine della II guerra mondiale restano in USA Marcuse, Fromm, Wittfogel, Neumann e Löwenthel, mentre Horkheimer, Adorno e Pollock tornano in Germania, riedificando l'Istituto, nella cui atmosfera culturale si forma una nuova generazione di studiosi, fra i quali A. Schmidt, O. Negt e J. Habermas (quest'ultimo è l'erede più significativo della scuola).
Tutte le elaborazioni teoriche della scuola devono essere messe in rapporto ai tre fenomeni storici principali dell'epoca: 1) nazifascismo in Europa occidentale (che stimola la problematica dell'autorità e i suoi nessi con la società industriale moderna, 2) stalinismo nella Russia sovietica (visto come l'altra faccia del capitalismo odierno), 3) moderna società tecnologica e opulenta americana (di qui gli studi sull'industria culturale, sull'individuo eterodiretto ecc.). Queste esperienze costituiscono agli occhi dei francofortesi il segno di una crisi socio-economica e teorico-filosofica di portata universale: 1) il fascismo viene considerato come la verità esplicita del capitalismo (l'illuminismo porta al fascismo), 2) il marxismo ufficiale sovietico è l'antitesi del marxismo di Marx ed Engels, 3) il pragmatismo americano ha sostituito il concetto di verità con quelli di probabilità e utilità.
Posizione filosofica della Scuola
Si tratta di una teoria critica del capitalismo e del comunismo sovietico, alla luce dell'ideale rivoluzionario di un'umanità futura libera, disalienata. Questo pensiero critico e negativo mira a smascherare le contraddizioni dei due suddetti sistemi e a prospettare un modello utopico alternativo a entrambi.
Gli autori fondamentali cui la scuola si rifà sono Hegel, Marx e Freud: 1) dalla tradizione hegelo-marxista la scuola deriva la tendenza filosofica a impostare un discorso dialettico e totalizzante intorno alla società: si mette in discussione la società globalmente intesa (come sistema), esprimendosi su come dovrebbe essere; 2) da Freud la scuola deriva gli strumenti analitici per lo studio della personalità e dei meccanismi di "introiezione" dell'autorità (molto importanti sono gli Studi (collettivi) sull'autorità e la famiglia del 1936 e Sulla personalità autoritaria del 1944-50). I concetti di libido e ricerca del piacere devono essere interpretati come istinti creativi che devono essere liberati dalle imposizioni autoritarie della società classista (vedi soprattutto la sinistra freudiana: Reich).
Non solo, ma i teorici di questa scuola, in forte polemica con le correnti neopositivistiche, criticano le premesse di fondo della concezione scientifica del mondo, radicata nel cartesianismo e nel galileismo. Ciò che non tollerano è l'elevazione della metodologia quantitativa e matematizzante delle scienze naturali a rigido modello logico di valore universale, applicabile cioè all'intero campo delle scienze. La scuola di F. si serve della nozione di "criticità" (desunta da Marx) estendendola a campi scientifici non previsti originariamente dal marxismo (come la sociologia, psicologia, ecc.). Del marxismo tuttavia la scuola non ha mai tenuto in particolare considerazione l'unità di teoria e politica, anzi si è servita del fallimento della politica rivoluzionaria bolscevica per affermare il diritto di distinguere teoria e prassi.
La ragione critica deve infatti separare la teoria dalla prassi per poter giudicare i tradimenti di quest'ultima e le falsificazioni di quelle teorie che pretendono di giustificare una prassi reificata. L'esigenza di una prassi conforme alla teoria resta comunque salvaguardata, anche se qui la scuola si limita a rimandare a un futuro indeterminato il compito di realizzare tale esigenza. Il concetto di "utopia" ha sempre avuto in tale scuola una valenza positiva e costruttiva.
La ragione critica è una dialettica che conserva entrambi gli elementi (teoria e prassi), ma è solo negativa, perché non ambisce a postulare una prassi politica alternativa (solo la coscienza o la cultura possono pretendere una valenza alternativa). D'altra parte la dialettica negativa esclude che nella storia sia possibile una compiuta identità di teoria e prassi: ciò che è possibile è solo una continua ricerca di questa identità. Quindi ogni ideologia totalitaria viene severamente condannata. Qualunque ideologia o filosofia che da critica si trasforma in positiva, si sclerotizza e muore. E' la non-identità di essere e pensiero che garantisce la verità, poiché essa è la sola che permette al pensiero di criticare le contraddizioni della realtà.
Critica dell'Illuminismo
L'opera-chiave della scuola è Dialettica dell'Illuminismo (1947), scritta da Horkheimer e Adorno. L'Illuminismo qui non è solo l'ideologia del movimento filosofico del XVIII sec., ma anche l'ideologia dominante della società capitalistica e persino tutto il complesso di atteggiamenti che, dall'uomo primitivo a quello moderno, ha perseguito l'ideale di una razionalizzazione del mondo tesa a renderlo soggiogabile da parte dell'uomo.
L'Illuminismo, che da sempre ha perseguito l'obiettivo di togliere all'uomo la paura, di smascherare i miti, di rendere l'uomo padrone della natura, si è rivelato esso stesso mito e totalitarismo, proprio in quanto ha avuto bisogno di miti per celare la propria intrinseca irrazionalità. La quale è determinata dal fatto che la pretesa di dominare sempre più la natura tende a rovesciarsi in un progressivo dominio dell'uomo sull'uomo e in un generale asservimento dell'individuo al sistema sociale. Nato per sottomettere la natura al dominio dell'uomo, l'Illuminismo ha finito per rendere l'uomo vittima di quella stessa legge di dominio.
Questa situazione viene vista prefigurata, nell'opera suddetta, dal racconto omerico del passaggio di Ulisse davanti alle sirene. Ulisse, per sentire il canto delle sirene, senza restarne ammaliato, rinuncia al lavoro e si fa legare all'albero della nave (come il padrone terriero che fa lavorare gli altri -qui i marinai- per sé. Ma questa è anche la sorte della borghesia, che si nega tanto più la felicità quanto più, crescendo in potenza, l'ha a portata di mano). Nelle società classiste, il signore che fa lavorare gli altri, pur potendo accogliere gli inviti della felicità, è chiuso nel suo alienante ruolo sociale. Mentre i servi, che con le orecchie chiuse dalla cera continuano a lavorare, pagano la loro capacità produttiva con l'incapacità di ascoltare dei richiami che trascendono la loro situazione. Cioè il proletariato, integrato nel sistema, perde la carica rivoluzionaria. A dominare è il ruolo sociale, alienato, cui ognuno deve conformarsi.
La società ha perso la fiducia in una ragione oggettiva, che crede nell'esistenza di verità universali e immutabili (Platone, Aristotele, Scolastica, Idealismo tedesco), cioè nella capacità dell'uomo di scegliere i fini per orientare la propria vita. La società si è affidata a una ragione strumentale (soggettiva), tesa a individuare i mezzi per perseguire dei fini che la società stessa non può controllare (dal pragmatismo al neoempirismo). Le scelte non aderiscono alla logica della ragione e della verità, ma a quella del dominio e del potere. La filosofia ha quindi il compito di criticare la ragione strumentale, ridando fiducia all'uomo (vedi Eclisse della ragione di Horkheimer).
Critica dell'hegelismo
Sia Marcuse (in Ragione e rivoluzione) che Adorno (in Tre studi su Hegel) hanno cercato di liberare Hegel dall'accusa di aver precorso il nazismo e di aver creato un "sistema reazionario" pur al cospetto di un "metodo progressivo" (tesi di Engels).
Marcuse afferma che la ragione hegeliana è in grado di prendere coscienza delle proprie contraddizioni, anche se Hegel avrebbe poi tradito i contenuti della sua stessa filosofia. Adorno afferma che il contenuto filosofico dell'idealismo hegeliano possiede la capacità di superare l'idealismo stesso. La colpa di Hegel sta nell'aver fatto coincidere "totalità" con "conclusività", cioè nell'averla conciliata con la realtà. La vera forma della totalità è invece una costante "non identità": essa può esprimersi solo nella negazione e nel continuo rimando utopico.
Nella Dialettica negativa (1966) Adorno spiegherà ancor meglio che la funzione primaria della dialettica non è quella hegeliana della sintesi o conciliazione, ma quella critico-negativa, in virtù della quale si possono mettere in discussione le varie pretese d'identità fra ragione e realtà, e svelare le contraddizioni non conciliate che caratterizzano il mondo in cui viviamo. Adorno ritiene che dopo Auschwitz ogni filosofia idealistica, che giustifichi la realtà, non abbia più senso.
Critica del marxismo
In quanto anticapitalisti, i franfortesi si sono richiamati a Marx (specie a quello "giovane"). Tuttavia essi hanno sempre trascurato il carattere strutturalmente economico dei conflitti sociali e l'importanza dei rapporti produttivi. Horkheimer ha negato al proletariato del suo tempo la capacità rivoluzionaria e ha attribuito il compito di portatore della verità più all'intellettuale critico che alla classe degli sfruttati. Forte è stato l'influsso su tutti loro delle posizioni di Luckàcs e di Korsch.
Dopo la morte di Adorno (1969), la filosofia di Horkheimer (che è sempre stata la più vicina al marxismo) si aprirà addirittura alle posizioni teologiche (vedi La nostalgia del totalmente Altro, 1970). In gioventù Horkheimer era convinto che il marxismo avrebbe potuto fermare il nazifascismo. Nella Nostalgia invece afferma che la situazione sociale del proletariato è migliorata anche senza rivoluzione, per cui oggi i lavoratori pensano a migliorare le loro condizioni materiali di vita, non a superare qualitativamente il sistema. L'umanità non cammina affatto verso il regno della libertà, ma verso un mondo totalmente amministrato. Giustizia e libertà stanno anzi in un rapporto di esclusione: quanto più aumenta una, tanto più diminuisce l'altra. Horkheimer nega che possa esistere un dio di fronte a tanta ingiustizia, però l'idea di un dio può costituire una speranza o una nostalgia, in virtù della quale l'ingiustizia non può pretendere di dire l'ultima parola. Il richiamo alla trascendenza deve appunto servire all'uomo per rendersi meglio conto dei propri limiti.
Critica dell'industria culturale
Horkheimer, ma soprattutto Adorno, hanno costatato che uno degli aspetti più caratteristici dell'odierna società tecnologica è la creazione del gigantesco apparato dei mass-media. Essi lo ritengono il più subdolo strumento di manipolazione usato dal sistema per conservare se stesso, tenendo sottomessi gli individui. E' subdolo perché illude che il consumatore sia il soggetto di tale industria, mentre in realtà ne è il puro oggetto. L'industria serve alle minoranze per suscitare bisogni e determinare i consumi, per imporre certi valori e modelli, riducendo gli individui a una massa informe. Persino il "tempo libero" diviene programmato. Attraverso i media passa l'ideologia più vitale per il neocapitalismo: l'idea della "bontà" del sistema e della "felicità" degli individui eterodiretti che lo costituiscono.
La critica dell'industria culturale verrà portata avanti, dopo Adorno, soprattutto da J. Habermas, il quale, in Storia e critica dell'opinione pubblica (1961), afferma che l'istanza dell'opinione pubblica, originariamente fatta valere dalla borghesia in ascesa contro la politica assolutistica, e rivendicata come condizione stessa di legittimazione del potere, ha finito per perdere ogni funzione critica: una volta istituzionalizzata negli organi dello Stato di diritto, essa si è assoggettata ai fini della manipolazione capitalistica.
L'analisi politica radicale: Marcuse (1898-1979)
L'opera di Marcuse rappresenta una sintesi originale di marxismo e freudismo. In Eros e civiltà (1955) egli aveva visto in un ritorno all'istinto una via di liberazione e di contestazione globale. La repressione dell'istinto, che Freud aveva considerato come inevitabile per la sopravvivenza del sistema, impediva invece, secondo M., la disalienazione. L'istinto coincide con l'Eros -dice M.-, che la civiltà classista non conosce perché funzionalizza l'eros alla pura riproduzione del sistema. Nel capitalismo l'istinto o è genitale o è riproduttivo. Solo l'eros può superare i criteri dell'efficienza, della produttività finalizzata al profitto. L'eros, che è il principio di piacere, è conservato dalla memoria nell'inconscio.
Il "ritorno del represso" si esprime non nella filosofia, ma nell'arte. Nella mitologia le figure più significative sono Orfeo e Narciso: il primo è la voce che canta, il secondo è una vita di bellezza e la sua esistenza è contemplazione. L'esistenza dev'essere concepita come libero gioco. Questo obiettivo è raggiungibile pensando che lo sviluppo tecnologico pone le premesse per una diminuzione radicale della quantità d'energia investita nel lavoro. Questa energia può essere impiegata in altro modo.
Da notare che anche Adorno ha avuto la stessa concezione dell'arte: essa da un lato si pone come denuncia della negatività disarmonica del mondo, cioè come segnale della non avvenuta conciliazione fra io e realtà; dall'altro come immagine anticipatrice di riconciliazione, in quanto, esprimendo la soggettività repressa, la sofferenza per la mancanza di libertà, l'arte si pone come desiderio utopico di un mondo realmente armonico. Qui Adorno, come Benjamin, è a favore di una politicizzazione dell'arte.
Ne L'uomo a una dimensione (1964) Marcuse radicalizza i vari motivi di critica della società tecnologica avanzata. L'uomo a una sola dimensione (quella del sistema) è alienato; ragione e realtà gli appaiono coincidenti. Il sistema gli fa apparire razionale ciò che è irrazionale: ad es. tutto è amministrato, però il sistema illude, col concetto di pluralismo (politico, culturale...), che il soggetto sia libero, mentre in realtà le decisioni sono sempre nelle mani di pochi. Lo stesso concetto di tolleranza viene usato dal sistema finché il cittadino non mette in discussione le basi del sistema.
Chi può modificare il sistema capitalistico? Non la classe operaia, perché si è lasciata integrare, ma i gruppi marginali, che vengono posti al di fuori del sistema (disoccupati, inabili, perseguitati dal razzismo, immigrati, ecc.). Questi gruppi possono incarnare il "grande rifiuto" (termine desunto dal manifesto surrealista del 1924 di A. Breton), cioè l'opposizione totale al sistema e l'inserimento dell'utopia nella realtà. Marcuse previde che il gruppo contestativo più importante alla fine degli anni '60 sarebbe stato quello studentesco, e in effetti il '68 (soprattutto negli USA) si ispirò largamente al suo pensiero.
L'ultimo Marcuse (Controrivoluzione e rivoluzione del 1972) vede, dopo il fallimento del '68, ancora più necessaria la rivoluzione, ma anche più improbabile. Più necessaria perché il sistema si regge in piedi solo attraverso la distruzione globale delle risorse, della natura e della vita umana; più improbabile perché la coscienza rivoluzionaria viene più facilmente repressa. L'attuale controrivoluzione dipende soprattutto dal fatto che il sistema oggi è in grado di garantire alti salari ai propri lavoratori, per cui gli operai si sono lasciati corrompere dal sistema. Ciò significa che la "nuova sinistra" deve educare i lavoratori ad apprendere gli strumenti della propria liberazione integrale.
La nuova sinistra deve però passare dalla fase della spontaneità (quella in cui si credeva che le masse sarebbero insorte spontaneamente contro il sistema) alla fase della razionalizzazione (per cui occorre un'opposizione cosciente, responsabile, quotidiana, disciplinata al sistema).
La psicanalisi rivoluzionaria: Fromm (1900-1980)
Fromm, come tutta la scuola, ha affermato che se Freud ha avuto ragione di scorgere nel fondo della natura umana (come unico movente di tutte le azioni umane) un istinto verso il piacere che si manifesta soprattutto nella sessualità, ha invece avuto torto nel ritenere indispensabile per la società il controllo di questo istinto o la sua sublimazione nelle sfere culturali-intellettuali. Non è la società in sé che esige questa repressione, ma è quella borghese, che va superata. In tal senso la psicanalisi odierna non fa che soddisfare le esigenze represse di individui appartenenti alla classe dominante.
Tuttavia, Fromm non ritiene, come il Marcuse di Eros e civiltà, che l'ideale di una società non repressiva debba nascere dalla liberazione dell'istinto. Occorre anche costruire una società umanistica, condizione fondamentale della quale è (sulla scia di Marx) la possibilità che gli uomini abbiano il controllo dei loro mezzi produttivi.
Solo in una società socialista (ma Fromm considerava lo stalinismo un tradimento del marxismo) gli istinti dell'uomo possono essere indirizzati verso il bene comune. Fromm non sopportava l'idea di proprietà privata, ma neppure l'egualitarismo indiscriminato. La pianificazione andava conciliata col pluralismo e con la libera iniziativa. L'ultimo Fromm è dell'idea che nell'uomo vada salvaguardata la libertà più che l'istinto. E in questo senso auspica che siano gli uomini di cultura, di scienza a consigliare i politici sulla migliore via da seguire.


Søren Kierkegaard     

 

Søren Kierkegaard, filosofo danese, rifiuta la costruzione sistematica della filosofia di Hegel preferendo una concezione della filosofia come riflessione del singolo a partire dall'esperienza religiosa del soggetto in lotta con la propria coscienza. La fenomenologia kierkegaardiana si basa sulle nozioni di scelta e di possibilità che emergono in un complesso gioco di specchi negli scritti pseudonimi.
Søren Kierkegaard nasce il 5 maggio 1813 a Copenaghen. La famiglia è originaria della penisola dello Jutland. Il padre, dall'infanzia povera riscattata da una ricchezza abilmente ottenuta in età matura, segue il pietismo della confraternita di Hernhuter ed educa il figlio a una religiosità severa. «Figlio della vecchiaia», Kierkegaard vede morire tra il 1819 e il 1839 due fratelli, tre sorelle, la madre e quattro anni dopo il padre. Søren Kierkegaard attribuirà la dolorosa perdita dei suoi familiari a una maledizione divina provocata da un grave peccato mortale commesso dal padre e da lui stesso confessato al figlio.
A diciassette anni si iscrive alla facoltà di Teologia dell'Università di Copenaghen. Quattro anni più tardi ottiene consensi per la pubblicazione dei suoi primi articoli e inizia a scrivere il Papirer, diario cui si dedicherà per tutta la vita e nel quale svilupperà la concezione di pensatore soggettivo esistente.
Un'idea secondo la quale il filosofo non può «tirarsi fuori» dall'esistenza e dal tempo per contemplarli oggettivamente, ma deve essere responsabile del suo rapporto esistenziale con la verità. Il sistema colloca tutte le cose in un continuo astratto, ma l'esistenza è discontinua, è salto. Quanto più il sistema è diplomatico, nel suo riconciliare i concetti, dominandoli, tanto più l'esistenza è scelta, alternativa, aut-aut inesorabile, e proprio per questo, angoscia.
La vera dialettica non è la dialettica oggettiva di Hegel, la razionalità del concetto all'opera nella storia, ma la dialettica appassionata, qualitativa, della soggettività. Dio non è l'Idea assoluta ma una persona, Cristo, con cui l'individuo dialoga e vive. La fede è una relazione privata dell'individuo con Cristo: è il luogo della verità e, proprio per questo, rischio assoluto.
Nella primavera del 1837, Kierkegaard conosce la figlia del consigliere di stato, Regina Olsen, che allora ha solo quattordici anni. Si fidanzeranno brevemente solo nel 1840, ma Kierkegaard romperà presto il fidanzamento a causa della sua convinzione di non poter compiere una vita normale, tematica che nel suo pensiero svilupperà come irriducibile individualità del singolo. Regina Olsen si sposerà più avanti con Friedrich Schlegel. Kierkegaard parlerà della sua relazione con Regina solo molti anni dopo nel suo Diario.
La morte del padre, nel 1838, lo segna profondamente. Kierkegaard riprende i suoi studi di teologia e si laurea con lode due anni dopo. Nel 1841 si iscrive al seminario pastorale e tiene il suo primo sermone, contemporaneamente lavora alla tesi Sul concetto di ironia con particolare riguardo a Socrate che gli farà ottenere il grado di magister (dottore di ricerca) in Teologia.
Nell'autunno dello stesso anno va a Berlino dove frequenta le lezioni di Schelling e inizia la stesura di Aut-aut (Enten-Eller). Tornato a Copenaghen, inizia a collaborare con il giornale «Faedrelandet» con lo pseudonimo di Johannes Climacus, da questo momento in poi Kierkegaard pubblicherà molti dei suoi scritti sotto falso nome per esplorare varie possibilità esistenziali.
Aut-aut, trattato sulla scelta in quanto categoria etica, e Timore e tremore usciranno nel 1843 firmati rispettivamente con gli pseudonimi Victor Eremita e Johannes de Silentio. L'anno dopo è la volta delle Briciole di filosofia ovvero una filosofia in briciole che firmerà con il suo primo pseudonimo, mentre Il concetto di angoscia conterrà una doppia contraffazione con la sigla di Vigilius Haufniensis per il testo e di Nicolaus Notabene per la prefazione.
L'angoscia, secondo Kierkegaard, scaturisce dall'esistenza in quanto regno delle possibilità, spazio della libertà e dell'illimitato contro cui si accaniscono i limiti dell'essere umano. L'angoscia è quindi condizione esistenziale insopprimibile e inaccettabile.
Nel 1845 escono con il suo vero nome Diciotto dissertazioni che edificano. Kierkegaard riceve numerosi attacchi dalle pagine del giornale satirico «Il corsaro», risponde con un'intervista a se stesso sotto il nome di Frater Taciturnus. In questi anni coltiva anche l'idea di diventare pastore, progetto che non realizzerà.
Nel 1849 pubblica "La malattia mortale" con il nome di Anti-Climacus, pseudonimo che utilizzerà anche per "L'esercizio del Cristianesimo", che sarà edito da S.K. l'anno dopo. Kierkegaard continua la sua attività di scrittore nonostante la salute cagionevole e l'aggravarsi della condizione economica.
Nel 1854 il suo rapporto con la chiesa luterana danese si rompe violentemente. Kierkegaard attacca il nuovo vescovo Martensen dalle pagine del «Faedrelandet», accusandolo di aver elogiato con estrema facilità il suo predecessore, Mynster, come «testimone della verità». La discussione continuerà fino alla morte di 

Kierkegaard, l'11 novembre 1855.





“Il riso. Saggio sul significato del comico” (Henri Bergson)

“Riassumendo, noi abbiamo veduto che poco importa che un carattere sia buono o cattivo: basta che esso sia insociabile per diventare comico. E non importa che si svolgano intorno a lui casi gravi o leggeri: potrà sempre farci ridere se lo disponiamo in modo che non possa commuoverci. Insociabilità del personaggio, insensibilitàdello spettatore, ecco le due condizioni essenziali. Ve né, inclusa nelle altre, una terza, che tutte le nostre analisi fino a questo punto hanno mirato a isolare: l’automatismo. Noi l’abbiamo mostrato fin dal principio di questo lavoro, e non abbiamo mai cessato di attirar l’attenzione su questo punto: non v’è nulla d’essenzialmente risibile che non sia compiuto automaticamente. In un difetto, in una qualità il comico comincia là dove il personaggio si dà in balia della sua incoscienza, compie gesti involontari, o pronuncia delle parole incoscienti. Ogni distrazione è comica, e più profonda è la distrazione più viva è la commedia. Una distrazione sistematica come quella di Don Chisciotte è ciò che si può immaginare di più comico al mondo: è il comico stesso attinto quanto più possibile vicino alla sorgente. Considerate un qualunque personaggio comico: per quanto consapevole esso possa essere di quello che dice e di quello che fa, se è comico, lo è perché vi è un aspetto della sua persona che esso ignora, un lato che gli è sconosciuto: soltanto per questo ci fa ridere.”
(Henri Bergson, “Il riso. Saggio sul significato del comico”, Ed. Laterza)
Il filosofo francese specifica subito, all’inizio del saggio, di non essere in cerca di una definizione generale del riso o della comicità, bensì di voler analizzare diversi aspetti della questione, alla ricerca di ciò che può accomunare le diverse fattispecie di riso e soprattutto le motivazioni di fondo per cui qualcosa che di per sé non dovrebbe farci ridere, come ad esempio una caduta di un nostro simile, ci induce, invece, alla risata.
Perché si ride quando qualcuno cade in maniera goffa? Perché un imitatore ci fa ridere e un altro ci lascia indifferenti? Qual è, se c’è, la funzione sociale del riso? A queste e ad altre domande prova a rispondere Henri Bergson nel suo libro “Il riso. Saggio sul significato del comico”, che risale al 1900 ma che non ha perso lo smalto originario
Bergson inizia scrivendo che per noi essere umani non c’è nulla di comico al di fuori del propriamente umano. Anche ciò che di comico scorgiamo in un animale è tale solo perché lo rapportiamo ai nostri parametri. Questa, che di per sé potrebbe apparire una banalità, serve al filosofo per addentrarsi nel discorso sul riso e in particolare sulla funzione sociale dello stesso. Bergson sostiene che quando ridiamo c’è una sospensione temporanea della nostra sensibilità, cioè non siamo in grado, in quel momento, di provare compassione per l’oggetto del nostro riso. Sotto questo profilo, sottolinea, con esempi puntuali presi dalla storia del teatro (ad esempio Molière) la differenza tra dramma e commedia. Bergson ritiene, inoltre, che il riso abbia bisogno di un’eco, cioè di essere condiviso con qualcuno, e che la risata è sempre di un gruppo nei confronti di qualcuno che si ritiene estraneo a quel gruppo, più o meno esteso, qualcuno del quale si vogliono colpire determinati comportamenti o pensieri.
Ma cos’è che fa ridere, più nello specifico? I meccanismi che fanno scattare la risata sono diversi, a parere di Bergson, e non sto qui a elencarli, ma di fondo sono riconducibili a quella che lui chiama rigidità. Ogni qual volta scorgiamo in qualcuno un atteggiamento, un gesto, una parola che relega colui che agisce o parla a marionetta di sé stesso, scatta il riso, come castigo sociale per rilevare la meccanicità dell’azione o del pensiero. Il personaggio oggetto della risata non è consapevole di esserlo, può avere un’idea fissa o anche semplicemente ripetere determinati gesti in modo meccanico e ossessivo, apparendo così, all’occhio dell’altro, comico e degno di una sonora risata. In estrema sintesi, dunque: insensibilità temporanea di colui che ride, incoscienza del personaggio comico, meccanicità dei comportamenti di quest’ultimo, funzione sociale (castigo) della risata.
In chiusura di questa breve e incompleta presentazione, sottolineo come il libro di Bergson si legga con molto piacere. L’autore accompagna le sue teorie con esempi concreti presi, oltre che dalle commedie, come detto, anche da episodi della vita quotidiana e la lettura non è mai pesante. Del resto, trattando di riso, sarebbe stato alquanto strano il contrario.

Ludwig Andreas Feuerbach


Ludwig Andreas Feuerbach, filosofo tedesco (Landshut, Baviera, 1804 - Rechenberg, Norimberga, 1872), iniziatore del cosiddetto ''umanesimo naturalistico''. Discepolo di Hegel a Berlino, ottenne nel 1828 la libera docenza, ma il suo carattere indipendente e l'estremismo della sua critica alla religione gli impedirono di proseguire nella carriera accademica. Suoi scritti principali:Pensieri sulla morte e l'immortalità (1830), Storia della filosofia moderna da Bacone di Verulamio a Spinoza (1833), Esposizione, svolgimento e critica della filosofia di Leibniz (1837), Pierre Bayle (1838), Per la critica della filosofia hegeliana (1839), L'essenza del cristianesimo (1841), Tesi provvisorie per la riforma della filosofia (1842), Principi della filosofia dell'avvenire (1843),L'essenza della religione (1845), Lezioni sull'essenza della religione (1851). Feurbach può essere considerato il maggiore rappresentante della cosiddetta sinistra hegeliana e, in genere, l'esponente più significativo di quel processo di dissoluzione della filosofia classica tedesca che si aprì poco dopo la morte di Hegel (1831) e che doveva culminare circa un decennio più tardi nella nascita dell'esistenzialismo religioso di Kierkegaard da un lato e del materialismo storico di Marx dall'altro. Partito da una posizione iniziale di piena adesione ai principi della filosofia di Hegel, di cui egli rintracciò le origini in quell'arco del pensiero moderno che va da Bacone a Spinoza e a Leibniz, Feurbach giunge nel 1839 alla critica radicale del sistema di Hegel, nella cui filosofia egli vede il coronamento e la sintesi, oltreché di tutta la filosofia razionalistica classica anche della teologia protestante. La tesi centrale, intorno a cui ruota tutto il pensiero di Feurbach, è che la filosofia è stata finora la semplice traduzione in forma razionale dei miti e dei sogni della teologia. Hegel, che ha compendiato e riunificato nella sua tutte le filosofie precedenti, è la sintesi conclusiva di quasi duemila anni di meditazione cristiana. La critica di Hegel e la critica del cristianesimo hanno dunque una matrice comune e poiché il cristianesimo è, a sua volta, la religione più compiuta e perfetta la critica di esso non è da intendere come la critica di una religione particolare qualsiasi, ma, al contrario, come la critica dell'''essenza'' stessa della religione in genere. L'errore di Hegel consiste, secondo Feurbach, nell'aver svalutato il mondo empirico-materiale, il mondo che è oggetto dei sensi (e, quindi, l'uomo stesso in quanto ente naturale) facendone un semplice ''non essere'' e una pura ''parvenza''. La vera realtà non è, per Hegel, l'essere empirico e naturale, bensì il pensiero, l'Idea, lo Spirito. In altre parole, mentre il pensiero, la coscienza, è in effetti solo una proprietà, un attributo o un predicato dell'ente naturale ''uomo'', Hegel separa invece quest'attributo dall'ente reale al quale appartiene e lo trasforma in una realtà a sé. Il pensiero, che è solo un predicato, diviene così un soggetto indipendente, cioè è sostantificato o personificato (l'Idea, lo Spirito); per contro l'uomo reale e la natura in genere si trasformano in predicato e manifestazione di quel Soggetto illusorio. Questa inversione, per cui una qualità naturale dell'uomo si trasforma in una potenza separata e a se stante, che domina l'uomo dal quale trae origine (e da cui, quindi, dovrebbe dipendere), costituisce, per Feurbach, il fenomeno della cosiddetta ''alienazione'' o estraneazione; fenomeno che egli considera comune sia alla filosofia speculativa sia alla teologia cristiana. Come l'idea o il Concetto della Logica di Hegel è il pensiero stesso dell'uomo, preso separatamente da questo suo soggetto reale, posto fuori di lui e quindi convertito in una potenza trascendente, così il Dio della teologia non è altro che lo spirito umano stesso inconsapevolmente oggettivato e assolutizzato dall'uomo. Si delinea a questo punto la tesi centrale di Feurbach: il segreto della filosofia è la teologia, della quale la filosofia ha accolto tutti i contenuti e i dogmi limitandosi a conferire loro una forma logico-razionale in luogo di quella mitico-fantastica originaria; ma il segreto della teologia è, a sua volta, l'antropologia. In breve, non è Dio che ha creato l'uomo, ma l'uomo che ha creato Dio. Tutte le qualità che l'essere umano attribuisce a Dio sono le qualità, gli attributi, i predicati stessi dell'uomo fatti soggetto, cioè convertiti in una potenza estranea all'uomo e da questo poi adorata come una forza che domina e padroneggia la sua vita. Nella religione, nella creazione di Dio, l'uomo si fa quindi ''altro'' da sé estraniandosi da se medesimo. Le religioni politeistiche e pagane personificano e divinizzano tutte le proprietà particolari dell'uomo, anche quelle più accidentali. Il cristianesimo, che è la religione più alta, la religione che meglio si è affrancata da ogni contaminazione naturalistica, divinizza al contrario, la ''essenza'' dell'uomo, la sua spiritualità o universalità, trascurandone gli attributi secondari. Il modello, il compendio della perfezione spirituale dell'uomo, è il Cristo, in cui l'''umanità'' rappresenta e oggettiva se stessa. Che il segreto della teologia sia l'antropologia significa quindi che l'origine della religione va ricercata, secondo Feurbach, nelle aspirazioni e nei bisogni insoddisfatti della condizione umana. Perché l'uomo possa riappropriarsi delle qualità che egli ha inconsapevolmente attribuito a un essere ''estraneo'' e ''altro'' da lui occorre che l'uomo si riconcili con sé superando quella condizione di ostilità e di separazione reciproca tra gli uomini che è la causa principale della sua infelicità e, quindi, dell'evasione nella religione. La separazione dell'uomo dalla sua ''essenza'' e quindi la divinizzazione di questa ha insomma la sua radice, per Feurbach, nella separazione terrena dell'uomo dall'uomo. Alla religione deve perciò subentrare l'umanesimo, all'amore verso Dio l'amore verso l'uomo. Ma perché ciò avvenga, perché l'uomo riconosca il suo Dio nell'altro uomo, occorre che l'uomo si riconcili con la natura e con il suo essere sensibile stesso, riscattando il mondo del senso e della materia dalla condanna pronunciata contro di esso dalla teologia e da tutte le filosofie idealistiche o speculative. Di qui l'incontro nel pensiero di Feurbach di materialismo e socialismo umanitario; e di qui anche il particolare accento del suo umanesimo che è celebrazione della natura e, insieme ''religione dell'uomo''. L'importanza storica di Feurbach è legata all'influenza decisiva esercitata dalla sua opera sulla formazione del pensiero di Marx.

sabato 23 marzo 2013

Quando il pensiero fa la grandezza dell'uomo..

ARTHUR SCHOPENHAUER

La concezione filosofica radicata in Schopenhauer, il richiamo a Kant e ai concetti di noumeno e fenomeno, l'energia dell'irrazionalità e la presenza del Romanticismo.

Per iniziare l’analisi della filosofia di Schopenhauer bisogna partire da due concetti di origina kantiana,fenomeno e noumeno. In Kant il fenomeno era ciò che cadeva sotto i nostri sensi e aveva un’accezione positiva perché era ciò che gli uomini possono conoscere della realtà. Il noumeno in Kant era invece ciò che stava dietro al fenomeno e che l’uomo non può conoscere. Schopenhauer riprese questi due termini e li rielaborò. Il fenomeno in Schopenhauer è qualcosa di limitante e negativo perché ci nasconde la vera realtà. Usando un termine della filosofia induista, Schopenhauer disse che il fenomeno era un velo di Maya, cioè uno schermo che nasconde all’uomo la vera realtà. 
Riprendendo Kant, Schopenhauer disse che la nostra conoscenza agisce attraverso tre forme pure a priori, cioè spaziotempo e causalità. Schopenhauer è convinto che abbiamo una visione distorta della realtà poiché la osserviamo attraverso tre forme pure a priori. Gli uomini sono convinti di vedere correttamente la realtà, ma ciò non è vero perché vivono come in un sogno. L’uomo è ingannato dalfenomeno e brancola nel buio delle proprie illusioni. Per squarciare il velo di Maya bisogna guardare dentro di sé. L’introspezione corporea è la via d’uscita per la sofferenza perché viene superata la distinzione soggetto - oggetto. Osservando il nostro corpo, si può scoprire un’energia cieca e irrazionale che ci spinge a vivere; questa energia che ci anima continuamente è chiamata da Schopenhauer Volontà di vivere
Queste spinte interne ci schiacciano e ci condizionano molto. Chi si suicida è spinto da una forte Volontà di vivere perché desidera una vita migliore di quella che sta vivendo. Ci si può presto rendere conto che tutti gli esseri sono permeati da questa cieca Volontà di vivere. Tutta la realtà è manifestazione della Volontà di vivere. La Volontà di vivere è irrazionale e infinito. Se la Volontà di vivere è principio di tutto, allora tutto è dolore. Infatti volere significa desiderare, desiderare significa stare in uno stato tensione, stare in uno stato di tensione significa dolore. 
Ciò che noi chiamiamo piacere non è altro che la sospensione momentanea del dolore. La Volontà, essendo la matrice di tutti i desideri, genera dolore. L’uomo soffre di più perché tra gli esseri viventi è quello più cosciente e intelligente. La vita non è altro che un continuo oscillare tra dolore e noia. In Schopenhauer c’è un pessimismo cosmico perché il dolore è alla base di tutta la realtà. Il suicidio non è una soluzione per fuggire dal dolore perché chi si suicida vuole al massimo grado un’altra vita, che sarà sempre caratterizzata dal dolore.


FRIEDRICH NIETZSCHE

Nel primo periodo della sua attività filosofica Nietzsche prende spunto da Schopenhauer e da Wagner. Col primo concorda nel considerare la filosofia non come un pensare oggettivo e scientifico, ma come una introspezione che guarda al vissuto di una persona; accetta anche la dicotomia tra volontà e rappresentazione in cui la prima è superiore alla seconda. Ma da Schopenhauer si distacca in quanto accetta la vita e rifiuta la sua concezione ascetica e pessimistica. Con Wagner è d'accordo nel considerare l'arte come un mezzo di liberazione che si sostituisce alla libertà morale: per Nietzsche la cultura artistica è la forma più alta di ogni cultura e la tragedia è la forma più elevata di cultura artistica. In Wagner egli vede l'artefice della rinascita della tragedia, dopo la crisi avviata dal pensiero socratico che ha pervaso di moralismo ogni aspetto della cultura, offuscando l'autentico spirito originario della tragedia di Eschilo e Sofocle. Nella Nascita della tragedia Nietzsche pone alla base della sua teoria estetica la coppia di istinti apollineo-dionisiaco: il dionisiaco è passione, identificazione con gli altri uomini e con la natura, dissolvimento nel coro ebbro dei seguaci di Bacco, è il musicale e l'informe; l'apollineo è misura e pacatezza, visione disinteressata. La civiltà umana nasce dall'unione di questi due elementi, per esprimersi poi attraverso il mascheramento del reale.
La posizione filologica di Nietzsche è di assoluta novità rispetto all'ambiente accademico, che infatti reagisce in modo critico a questa concezione che rifiuta di considerare l'ellenismo come un mondo di razionalità e di equilibrio: Nietzsche apre così la strada alla comprensione dell'irrazionale nel mondo greco. L'inizio della decadenza greca non coincide con l'inizio delle invasioni barbariche, ma con il prevalere dell'apollineo: questo porta al prevalere della visione scientifica della vita sull'istinto, alla nascita delle metafisiche e delle teologie. I principali responsabili di tutto questo sono, secondo Nietzsche, Socrate, l'"uomo teoretico" che esalta l'intelligenza dissolvitrice dell'istinto, Euripide, che fa oggetto della tragedia non la vita ma le teorie filosofiche sulla vita, e Platone. Questi elementi permangono nel pensiero, attraverso la mediazione del cristianesimo, sino all'epoca moderna (l'uomo moderno è utilitarista e razionalista, lontano dal mare ondeggiante della vita).
Il tema della crisi della cultura dionisiaco-apollinea e della necessità di superare la scissione dall'essere lo troviamo anche nelle Considerazioni inattuali, all'interno del quadro di una critica della cultura tedesca contemporanea. Ora però Nietzsche più che criticare la cultura artistica critica i vari uomini che ne sono gli esponenti: Strauss è per lui un filisteo colto, un falso uomo di cultura che celebra il benessere e l'involuzione verso il meglio. Critica poi la cultura storica, in quanto ritiene che se questa è utile all'uomo, non deve però avvolgerlo completamente in quanto questo inibisce la vita stessa; il fine della vita è la produzione di grandi esemplari di individui. Nella considerazione su Schopenhauer esalta l'uomo indipendente dallo stato e che riesce a essere se stesso, idealizzando la figura del filosofo libero da ogni legame. Nietzsche precisa in questa sede il suo concetto di cultura: questa non deve essere una cultura dell'eleganza, delle buone maniere, dell'egoismo del mondo degli affari e della ricchezza o dell'egoismo della scienza che oggettivizza il vitale. Il tecnico dell'industria, il funzionario dello stato, lo scienziato, non sono veri uomoni: la vera cultura è quella che contribuisce a creare in noi l'artista e il filosofo, l'uomo libero che sa essere se stesso; è una cultura aristocratica che consiste nel vivere a vantaggio non del maggior numero di uomini, ma a vantaggio degli uomini superiori, dei geni artistici e filosofici.
La seconda fase del pensiero di Nietzsche va dal 1876-77 al 1881-82 ed ha una forte impronta antimetafisica, scettica e positivistica. E' il momento in cui Nietzsche rompe la sua amicizia con Wagner perché vi vede motivi di cedimento al cristianesimo e alla rassegnazione. Si stacca anche dal pensiero di Schopenhauer, di cui non accetta più la concezione negativa della volontà, in cui vede un altro segno di una emancipazione incompleta dal cristianesimo. La filosofia di Nietzsche cerca ora di reperire il se stesso ultimo del mondo e dell'uomo, il terreno su cui poggia l'esistenza, l'originario: per questo egli deve sgombrare il campo da ciò che si è sovrapposto a questi elementi e riscoprire l'essere autentico. Da questo ricominciamento parte la rinascita verso una vita artistica. Questa nuova impostazione rivaluta la figura del filosofo-scienziato che analizza e critica, è lo spirito libero della prefazione a "Umano, troppo umano".
A nascondere la natura dell'uomo sono soprattutto la morale, la religione e la metafisica. La natura non è opera divina né manifestazione della ragione, non ha significato o fine o ordine; il mondo è caos originario, è se stesso. A questa posizione che considera il mondo come una oggettività indifferente e che si fonda su una concezione della scienza della natura come rigorosamente limitata alla natura, si affianca una posizione che nell'ultimo Nietzsche diventerà ancora più radicale: il mondo non ha una realtà, è ciò che appare, non ci sono fatti ma solo interpretazioni, non vi sono verità assolute ma solo relative alle diverse interpretazioni (Nietzsche chiamerà questa posizione "prospettivismo"). Nietzsche mette così in discussione la stessa scienza, i cui concetti hanno per lui un carattere puramente convenzionale. Si tratta di una posizione che si fonda sull'uomo, non sulla scienza naturale ma sulla psicologia, sulla conoscenza e la certezza di sé. Il mondo che l'uomo ha di fronte è un mondo in cui "Dio è morto", un mondo che non autorizza né l'ottimismo né il pessimismo, in cui l'uomo non ha garanzie al di fuori di se stesso: è l'uomo che dà un significato alla sua esistenza.
Nietzsche cerca ora di rintracciare il fondo autentico dell'uomo, e qui trova il senso del vitale, il cui nucleo consiste nel senso di potenza e paura; nel senso di potenza in modo particolare. Nietzsche è contro quelle morali che esaltano la rinuncia e l'impotenza, che hanno paura dell'individuo e della sua indipendenza e cercano di inserirlo nel mondo dello Stato e del lavoro. La morale è un modo di comportarsi secondo il costume di un certo gruppo sociale, ma i gruppi sociali sono tanti e i loro costumi cambiano incessantemente. L'immoralismo nietzschiano non è però la negazione della morale in quanto tale, ma delle morali dominanti (utilitaristica, teologica) che esprimono un'organizzazione della vita propria di certi soggetti (i popoli e gli individui deboli), che è indispensabile a conservare la specie ma che non è sufficiente per creare veri uomini e per liberare l'istinto. L'uomo non deve dissolvere la natura, non deve soffocare gli impulsi, ma deve espandere il naturale. Le grandi civiltà, secondo Nietzsche nascono dalla vita presa nella sua pienezza; subordinare la vita ad un ideale significa diminuire le possibilità di sviluppo dell'uomo. Nietzsche comprende i rischi della scelta per lo sviluppo della storia, per cui decide di sottrarsi alla scelta. La sua tesi di fondo è che la vita va accettata e affermata. Questa emancipazione e non repressione del vitale non va intesa come affermazione del suo espandersi sregolato: lo spirito libero non si è sciolto dai lacci del costume per farsi legare dai lacci delle passioni indisciplinate, non è un debole, perché possiede se stesso, esercita l'istinto di potenza anche su se stesso.
Nella terza fase del suo pensiero Nietzsche aggiunge un atteggiamento costruttivo all'atteggiamento critico-analitico che lo aveva contraddistinto sino ad allora.
La volontà di potenza si precisa come la categoria centrale della realtà umana (la psicologia dovrà scendere nel profondo ed occuparsi di questa categoria). Questa volontà si rivela come l'istinto fondamentale dell'uomo, è l'essere da cui muovere per la costruzione dei veri valori e a cui ci si deve riferire per la demistificazione dei valori-idoli. L'individuo umano è una forza che vuole estrinsecarsi, è una forza creatrice; la volontà di potenza è una struttura psicologica, che nell'ultimo Nietzsche finisce per diventare anche cosmologica, in quanto principio costitutivo della natura organica e inorganica (si tratta però solo di un'ipotesi, in quanto Nietzsche per la conoscenza della natura rinvia sempre alla scienza). Nietzsche vuole contrastare la tendenza a fuggire la vita invitando ad immergivisi (è meglio essere Cesare Borgia che essere senza passioni, diceva). Secondo Nietzsche fare scienza significa trasformare la natura in concetti per dominarla; la verità è un errore e non un assoluto, ma è un errore di cui la specie umana non può fare a meno.
La volontà di potenza è autodominio: da un lato è aggressione e conquista, ma dall'altro è controllo di se stessi. Il superuomo (inteso come oltreuomo o più che uomo) è colui che sa fare di sé (non si nasce supeuomini) l'espressione della volontà di potenza in questa sua duplice natura.
Per Nietzsche il superamento dell'uomo comporta anche il superamento e la trasformazione di tutti i valori, il capovolgimento dell'uomo moderno: l'uomo che va superato vive nella mediocrità, nella sicurezza pacifica, nel gregge, è una semplice creatura la cui morale è la morale degli schiavi, una morale i cui valori sono quelli che confortano gli stanchi e i sofferenti (pietà, altruismo, disinteresse, umiltà, operosità). Il superuomo invece è il creatore di se stesso, è avventuriero e dominatore, non teme la vita ma la fa sua con coraggio; la morale dei "signori" ha i suoi valori nella pienezza umana, nella fierezza, nella fede in se stesso. Un altro aspetto da sottolineare è l'aristocraticismo, per il quale il senso della storia non consiste nell'innalzamento della civiltà e del genere umano, ma nell'elevazione degli individui superiori: non tutta l'umanità ma solo una razza, un popolo consta di tali individui. Si tratta di una disuguaglianza non voluta, ma da Nietzsche constatata e riconosciuta come necessaria (Nietzsche si rivela così come un antropologo pessimista).
Nel cristianesimo Nietzsche persegue proprio l'avversione verso la vita come potenza e l'avversione egalitaria verso l'individuo e le aristocrazie: il cristianesimo, predicando la carità e la non resistenza al male, dissecca la sorgente della vita e non può educare superuomini; anche il nazionalismo e lo statalismo distraggono l'uomo dalla volontà di potenza. Nella società borghese-industriale chi detiene il potere non è un superuomo, ma un uomo comune diventato casualmente dominatore; proprio l'assoggettamento a questa classe di incapaci ha fatto nascere il socialismo. L'ideale di uguaglianza diffuso da cristianesimo, democrazia e socialismo è l'ideale dell'oppresso, ed è un ideale che impedisce l'emergere della classe dei superuomini. Nietzsche non annuncia l'uguaglianza ma riapre fossati e divide; non predica l'emancipazione degli sfruttati, ma l'accettazione del dualismo fra schiavi e liberi, superuomini e gregge. Per Nietzsche lo stesso rapporto che intercorre fra superuomo e gregge dovrebbe intercorrere fra popoli europei e altri popoli. Tutti i problemi legati alla repressione si potrebbero superare grazie all'emancipazione di una parte di uomini e al costituirsi di questi in una classe dominante.
Un altro elemento della dottrina di Nietzsche è la teoria dell'eterno ritorno, dove si afferma che il mondo è sempre uguale a se stesso, non cambia e ogni cosa ritorna come era, secondo un processo ciclico; anche l'essere dell'uomo è sempre identico a se stesso e nulla può giudicare questo, perché non esiste Dio e non esiste una creazione. L'uomo deve accettare il suo essere e diventare ciò che è: l'"è" si deve trasformare in "voglio", è la tesi naturalistica della non negazione della vita e dell'affermazione della stessa, identificandosi con l'essere originario. Queste tesi costituiscono la base dell'antropologia di Nietzsche.